LA RIVOLUZIONE DI SAN FRANCESCO

 

Dalla  predica di Avvento di padre Raniero Cantalamessa in Vaticano nel 2013

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, l’intento di queste tre meditazioni di Avvento è di prepararci al Natale in compagnia di Francesco d’Assisi. Di lui, in questa prima meditazione, vorrei mettere in luce la natura del suo ritorno al Vangelo. Il teologo Yves Congar, nel suo studio su “Vera e falsa riforma nella Chiesa” vede in Francesco l’esempio più chiaro di riforma della Chiesa per via di santità[1]. Vorremmo cercare di capire in che è consistita la sua riforma per via di santità e cosa il suo esempio comporta in ogni epoca della Chiesa, compresa la nostra.

1. La conversione di Francesco

Per capire qualcosa dell’avventura di Francesco bisogna partire dalla sua conversione. Di tale evento esistono, nelle fonti, diverse descrizioni con notevoli differenze tra di loro. Per fortuna abbiamo una fonte assolutamente affidabile che ci dispensa dallo scegliere tra le varie versioni. Abbiamo la testimonianza di Francesco stesso nel suo Testamento, la sua ipsissima vox, come si dice delle parole sicuramente di Cristo riportate nel Vangelo. Dice:

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

È su questo testo che giustamente si basano gli storici, ma con un limite per loro invalicabile. Gli storici, anche i meglio intenzionati e più rispettosi della peculiarità della vicenda di Francesco, come è stato, tra gli italiani Raoul Manselli, non riescono a cogliere il perché ultimo del suo radicale cambiamento. Si arrestano –e giustamente per rispetto al loro metodo – sulla soglia, parlando di un “segreto di Francesco”, destinato a rimanere tale per sempre.

Quello che si riesce a costatare, dicono gli storici, è la decisione di Francesco di cambiare il suo stato sociale. Da appartenente alla classe agiata, che contava nella città per nobiltà o ricchezza, egli ha scelto di collocarsi all’estremità opposta, condividendo la vita degli ultimi, di quelli che non contavano nulla, i cosiddetti “minori”, afflitti da ogni genere di povertà.

Gli storici insistono giustamente sul fatto che Francesco, all’inizio, non ha scelto la povertà  e tanto meno il pauperismo; ha scelto i poveri! Il cambiamento è motivato più dal comandamento; “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che non dal consiglio: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Era la compassione per la povera gente, più che la ricerca della propria perfezione che lo muoveva, la carità più che la povertà.

Tutto questo è vero, ma non tocca ancora il fondo del problema. È l’effetto del cambiamento, non la sua causa. La scelta vera è molto più radicale: non si trattò di scegliere tra ricchezza e povertà, né tra ricchi e poveri, tra l’appartenenza a una classe piuttosto che a un’altra, ma di scegliere tra se stesso e  Dio, tra salvare la propria vita o perderla per il Vangelo.

Ci sono stati alcuni (per esempio, in tempi a noi vicini, Simone Weil) che sono arrivati a Cristo partendo dall’amore per i poveri e vi sono stati altri che sono arrivati ai poveri partendo dall’amore per Cristo. Francesco appartiene a questi secondi. Il motivo profondo della sua conversione non è di natura sociale, ma evangelica.  Gesú  ne aveva formulato la legge una volta per tutte con una delle frasi più solenni e più sicuramente autentiche del Vangelo:

“Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Mt 14, 24-25).

Francesco, baciando il lebbroso, ha rinnegato se stesso in quello che era più  “amaro” e ripugnante alla sua natura. Ha fatto violenza a se stesso. Il particolare non è sfuggito al suo primo biografo che descrive così l’episodio:

“Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò.  Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”[2].

Francesco non andò di sua spontanea volontà dai lebbrosi, mosso da umana e religiosa compassione. “Il Signore, scrive, mi condusse tra loro”. È su questo piccolo dettaglio che gli storici non sanno –né potrebbero – dare un giudizio, ed è invece all’origine di tutto. Gesù aveva preparato il suo cuore in modo che la sua libertà, al momento giusto, rispondesse alla grazia. A questo erano serviti il sogno di Spoleto e la domanda se preferiva servire il servo o il padrone, la malattia, la prigionia a Perugia e quell’inquietudine strana che non gli permetteva più di trovare gioia nei divertimenti e gli faceva ricercare luoghi solitari.

Pur senza pensare che si trattasse di Gesú in persona sotto le sembianze di un lebbroso (come più tardi si cercò di fare, ripensando al caso analogo della vita di san Martino di Tours[3]), in quel momento il lebbroso per Francesco rappresentava a tutti gli effetti Gesú. Non aveva egli detto: “L’avete fatto a me”? In quel momento ha scelto tra se e Gesú. La conversione di Francesco è della stessa  natura di quella di Paolo. Per Paolo, a un certo punto, quello che prima era stato un “guadagno” cambiò segno e divenne “perdita”, “a motivo di Cristo” (Fil 3, 5 ss); per Francesco quello che era stato amaro si convertì in dolcezza, anche qui “a motivo di Cristo”. Dopo questo momento, entrambi possono dire: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”.

Tutto questo ci obbliga a correggere una certa immagine di Francesco resa popolare dalla letteratura posteriore e accolta da Dante nella Divina Commedia. La famosa metafora delle nozze di Francesco con Madonna Povertà che ha lasciato tracce profonde nell’arte e nella poesia francescane può essere deviante. Non ci si innamora di una virtù, fosse pure la povertà; ci si innamora di una persona. Le nozze di Francesco sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo.

Ai compagni che gli chiedevano se intendeva prendere moglie, vedendolo una sera stranamente assente e luminoso in volto, il giovane Francesco rispose: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista”. Questa risposta viene di solito male interpretata. Dal contesto appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la perla preziosa, cioè  Cristo. “Sposa, commenta il Celano che riferisce l’episodio, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli è il tesoro nascosto che egli cercò”[4].

Francesco non sposò la povertà e neppure i poveri; sposò Cristo e fu per amor suo che sposò, per così dire “in seconde nozze” Madonna povertà. Così sarà sempre nella santità cristiana. Alla base dell’amore per la povertà e per i poveri, o vi è l’amore per Cristo, oppure i poveri saranno in un modo o nell’altro strumentalizzati e la povertà diventerà facilmente un fatto polemico contro la Chiesa, o una ostentazione di maggiore perfezione rispetto ad altri nella Chiesa, come avvenne, purtroppo, anche tra alcuni dei seguaci del Poverello. Nell’uno e nell’altro caso, si fa della povertà la peggiore forma di ricchezza, quella della propria giustizia.

2. Francesco e la riforma della Chiesa

Come avvenne che da un evento così intimo e personale come fu la conversione del giovane Francesco, prese avvio un movimento che cambiò a suo tempo il volto della Chiesa e ha inciso così fortemente nella storia, fino ai nostri giorni?

Bisogna dare uno sguardo alla situazione del tempo. All’epoca di Francesco la riforma della Chiesa era un’esigenza avvertita più o meno consapevolmente da tutti. Il corpo della Chiesa viveva tensioni e lacerazioni profonde. Da una parte c’era la Chiesa istituzionale –papa, vescovi, alto clero- logorata dai suoi perenni conflitti e dalle sue troppo strette alleanze con l’impero. Una Chiesa avvertita come lontana, impegnata in vicende troppo al di sopra degli interessi della gente.  Venivano poi i grandi ordini religiosi, spesso fiorenti per cultura e spiritualità dopo le varie riforme del secolo XI, tra qui quella Cistercense, ma fatalmente identificati con i grandi proprietari terrieri, i feudatari del tempo, vicini e nello stesso tempo remoti anch’essi, per problemi e tenore di vita, dal popolo minuto.

Dalla parte opposta c’era una società che dalle campagne cominciava a emigrare verso le città in cerca di maggiore libertà dalle varie servitù. Questa parte della società identificava la Chiesa con le classi dominanti da cui sentiva il bisogno di affrancarsi. Perciò si schierava volentieri con quelli che la contraddicevano e la combattevano: eretici, gruppi radicali e pauperistici, mentre simpatizzava con il basso clero spesso non all’altezza spirituale dei prelati, ma più vicino al popolo.

C’erano dunque forti tensioni che ognuno cercava di sfruttare a proprio vantaggio. La Gerarchia cercava di rispondere a queste tensioni migliorando la propria organizzazione e reprimendo gli abusi, sia al suo interno (lotta alla simonia e al concubinato dei preti) sia all’esterno nella società. I gruppi ostili cercavano invece di fare esplodere le tensioni, radicalizzando il contrasto con la Gerarchia dando origine a movimenti più o meno scismatici. Tutti inalberavano contro la Chiesa l’ideale della povertà e semplicità evangelica facendo di esso un’arma polemica, più che un ideale spirituale da vivere in umiltà, arrivando a mettere in discussione anche il ministero della Chiesa, il sacerdozio e il papato.

Noi siamo abituati a vedere Francesco come l’uomo provvidenziale che coglie queste istanze popolari di rinnovamento, le disinnesca da ogni carica polemica e le riporta o le attua nella Chiesa in profonda comunione e sottomissione ad essa. Francesco dunque come una specie di mediatore tra gli eretici ribelli e la Chiesa istituzionale. In un noto manuale di storia della Chiesa così è presentata la sua missione:

“Siccome la ricchezza e la potenza della Chiesa apparivano spesso come una fonte di gravi mali e gli eretici del tempo ne traevano argomento per le principali accuse contro di essa, in alcune anime pie si destò il nobile desiderio di ripristinare la vita povera di Gesù e della Chiesa primitiva, per poter così più efficacemente influire sul popolo con la parola e l’esempio” [5].

Tra queste anime viene collocato naturalmente in primo luogo, insieme con san Domenico, Francesco d’Assisi. Lo storico protestante Paul Sabatier, pur tanto benemerito degli studi francescani, ha reso quasi canonica tra gli storici, e non solo tra quelli laici e protestanti, la tesi secondo cui il cardinale Ugolino (il futuro Gregorio IX) avrebbe inteso catturare Francesco per la Curia, addomesticando la carica critica e rivoluzionaria del suo movimento. In pratica è il tentativo di fare di Francesco, un precursore di Lutero, cioè un riformatore per via di critica, anziché di santità.

Non so se questa volontà di strumentalizzarlo si possa attribuire a qualcuno dei grandi protettori e amici di Francesco. Pare difficile attribuirla al card. Ugolino e ancora meno a Innocenzo III, di cui è nota l’azione riformatrice e l’appoggio dato a varie forme nuove di vita spirituale sorte al suo tempo, compresi appunto i frati minori, i domenicani, gli umiliati milanesi. Una cosa, in ogni caso, è assolutamente certa: quell’intenzione non ha mai sfiorato la mente di Francesco. Egli non pensò mai di essere chiamato a riformare la Chiesa.

Bisogna stare attenti a non tirare conclusioni sbagliate dalle famose parole del Crocifisso di San Damiano “Va’, Francesco e ripara la mia Chiesa che, come vedi, va in rovina”. Le fonti stesse ci assicurano che egli intese quelle parole nel senso assai modesto di dover riparare materialmente la chiesetta di San Damiano. Furono i discepoli e i biografi che interpretarono – e, bisogna dire, non a  torto – quelle parole come riferite alla Chiesa istituzione e non solo alla Chiesa edificio. Lui rimase sempre alla sua interpretazione letterale e infatti continuò a riparare altre chiesette dei dintorni di Assisi che erano in rovina.

Anche il sogno in cui Innocenzo III avrebbe visto il Poverello sostenere con la sua spalla la Chiesa cadente del Laterano non dice nulla di più. Supposto che il fatto sia storico (un episodio analogo viene infatti narrato anche a proposito di San Domenico), il sogno fu del papa, non di Francesco! Egli non si è mai visto come lo vediamo noi oggi nell’affresco di Giotto. Questo significa essere riformatore per via di santità: esserlo, senza saperlo!

3. Francesco e il ritorno al Vangelo

Se non ha voluto essere un riformatore, cosa allora ha voluto essere e fare Francesco? Anche su questo abbiamo la fortuna di avere la testimonianza diretta del Santo nel suo Testamento:

E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed   io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo confermò”.

Allude al momento in cui,  durante una Messa, ascoltò il brano di vangelo dove Gesù invia i suoi discepoli dicendo: “Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire i malati. E disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio: né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non abbiate tunica di ricambio” (Lc 9, 2-3)[6]. Fu una rivelazione folgorante di quelle che orientano un’intera vita. Da quel giorno gli fu chiara la sua missione: un ritorno semplice e radicale al vangelo reale, quello vissuto e predicato da Gesù. Ripristinare nel mondo la forma e lo stile di vita di Gesù e degli apostoli descritto nei vangeli. Scrivendo la Regola per i suoi frati comincerà così:

“La regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”.

Francesco non teorizzò questa sua scoperta, facendone il programma per la riforma della Chiesa. Egli realizzò in sé la riforma e così indicò tacitamente alla Chiesa l’unica via per uscire dalla crisi: riaccostarsi al vangelo, riaccostarsi agli uomini e in particolare agli umili de ai poveri.

Questo ritorno al Vangelo si riflette anzitutto nella predicazione di Francesco. È sorprendente, ma tutti lo hanno notato: il Poverello parla quasi sempre di “fare penitenza”. Da allora in poi, narra il Celano, con grande fervore ed esultanza, egli cominciò a predicare la penitenza, edificando tutti con la semplicità della sua parola e la magnificenza del suo cuore. Dovunque andava, Francesco diceva, raccomandava, supplicava che facessero penitenza[7].

Che cosa intendeva Francesco con questa parola che gli stava tanto a cuore? A questo proposito siamo caduti (almeno io sono caduto per molto tempo) in errore. Abbiamo ridotto il messaggio di Francesco a una semplice esortazione morale, a un battersi il petto, affliggersi e mortificarsi per espiare i peccati, mentre esso ha tutta la novità e il l’ampio respiro del vangelo di Cristo. Francesco non esortava a fare “penitenze”, ma a fare “penitenza” (al singolare!) che, vedremo, è tutt’un’altra cosa.

Il Poverello, salvi i pochi casi che conosciamo, scriveva in latino. E cosa troviamo nel testo latino, del Testamento, quando scrive: “Il Signore diede a me, frate Francesco, così di cominciare a fare penitenza”? Troviamo l’espressione “poenitentiam agere”. Egli, si sa, amava esprimersi con le parole stesse di Gesù. E quella parola – fare penitenza –  è la parola con cui Gesù cominciò a predicare e che ripeteva in ogni città e villaggio dove si recava:

“Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).

La parola che oggi si traduce con “convertitevi” o “pentitevi”, nel testo della Volgata usato dal Poverello, suonava “poenitemini” e in Atti 2, 37 ancora più letteralmente “poenitentiamagite”, fate penitenza. Francesco non ha fatto altro che rilanciare il grande appello alla conversione con cui si apre la predicazione di Gesú nel Vangelo e quella degli apostoli il giorno di Pentecoste.

Francesco fece a suo tempo quello che al tempo del Concilio Vaticano II si intendeva con il motto: “abbattere i bastioni”: rompere l’isolamento della Chiesa, riportarla a contatto con la gente. Uno dei fattori di oscuramento del vangelo era la trasformazione dell’autorità intesa come servizio, in autorità intesa come potere che aveva prodotto infiniti conflitti dentro e fuori la Chiesa. Francesco, per conto suo, risolve il problema in senso evangelico. Nel suo Ordine, novità assoluta, i superiori si chiameranno ministri, cioè servi, e tutti gli altri frati, cioè fratelli.

Un altro muro di separazione tra la Chiesa e il popolo era la scienza e la cultura di cui il clero e i monaci avevano in pratica il monopolio. Francesco lo sa e perciò prende la posizione drastica che sappiamo su questo punto. Egli non ce l’ha con la scienza-conoscenza, ma con la scienza-potere; quella che privilegia chi sa leggere su chi non sa leggere e gli permette di comandare altezzosamente al fratello: “Portami il breviario!”. Durante il famoso capitolo delle stuoie ad alcuni suoi frati che volevano spingerlo ad adeguarsi all’atteggiamento degli “ordini” colti del tempo, rispose con parole di fuoco che lasciarono, si legge, i frati pervasi di timore:

«Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza”[8].

Sempre lo stesso coerente atteggiamento. Egli vuole per sé e i suoi frati la più rigida povertà, ma, nella Regola, li esorta a “non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”[9]. Sceglie di essere un illetterato, ma non condanna la scienza. Una volta assicurato che la scienza non estingua “lo spirito della santa orazione e devozione”, sarà lui stesso a permettere a frate Antonio di dedicarsi all’insegnamento della teologia e san Bonaventura non crederà di tradire lo spirito del fondatore, aprendo l’ordine agli studi nelle grandi università.

Yves Congar  vede in ciò una delle condizioni essenziali della “vera riforma” nella Chiesa,  la riforma, cioè, che rimane tale e non si trasforma in scisma: vale a dire la capacità di non assolutizzare la propria intuizione, ma rimanere solidale con il tutto che è la Chiesa[10]. La convinzione, dice papa Francesco, nella sua recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium, che “il tutto è superiore alla parte”.

3. Come imitare Francesco

Che cosa dice a noi oggi  l’esperienza di Francesco? Che cosa possiamo imitare, di lui, tutti e subito? Sia quelli che  Dio chiama a riformare la Chiesa per via di santità, sia quelli che si sentono chiamati a rinnovarla per via di critica, sia quelli che egli stesso chiama a riformarla per via dell’ufficio che ricoprono? La stessa cosa da cui è cominciata l’avventura spirituale di Francesco: la sua conversione dall’io a  Dio, il suo rinnegamento di sé. È così che nascono i veri riformatori, quelli che cambiano davvero qualcosa nella Chiesa. I morti a se stessi. Meglio, quelli che decidono seriamente di morire a se stessi, perché si tratta di un’impresa che dura tutta la vita e anche oltre, se, come diceva scherzosamente santa Teresa d’Avila, il nostro amor proprio muore venti minuti dopo di noi.

Diceva un santo monaco ortodosso, Silvano del Monte Athos: “Per essere veramente liberi, bisogna cominciare a legare se stessi”. Uomini come questi sono liberi della libertà dello Spirito; niente li ferma e niente li spaventa più. Diventano riformatori per via di santità, e non solo per via di ufficio.

Ma che significa la proposta di Gesú di rinnegare se stessi? È essa ancora proponibile a un mondo che parla solo di autorealizzazione, autoaffermazione? Il rinnegamento non è mai fine a se stesso, né un ideale in sé. La cosa più importante è quella positiva: Se uno vuol venire dietro di me; è il seguire Cristo, possedere Cristo. Dire no a se stessi è il mezzo; dire sì a Cristo è il fine. Paolo la presenta come una specie di legge dello spirito: “Se con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della carne, vivrete” (Rom 8,13). Questo, come si vede, è un morire per vivere; è l’opposto della visione filosofica  secondo cui la vita umana è “un vivere per morire” (Heidegger).

Si trat­ta di sapere se vogliamo vivere “per noi stessi”, o “per il Signore” (cf. 2 Cor 5,15; Rom 14, 7-8). Vivere “per se stessi” significa vivere per il proprio comodo, la propria gloria, il proprio avanzamento; vivere “per il Signore” significa rimettere sempre al primo posto, nelle nostre intenzioni, la gloria di Cristo, gli interessi del Regno e della Chiesa. Ogni “ no“, piccolo o grande, detto a se stessi per amore, è un sì detto a Cristo.

Non si tratta però di sapere tutto sul rinnegamento cristiano, la sua bellezza e necessità; si tratta di passare all’atto, di praticarla. Un grande maestro di spirito dell’antichità diceva: “È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo; e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qual­cosa; il suo pensiero gli dice: “Guarda là”, ma lui risponde al suo pensiero: “No, non guardo”, e spezza così la propria volon­tà. Poi incontra altri che stanno sparlando di qualcuno, magari del superiore, e il suo pensiero gli dice: “Di’ anche tu quello che sai”, e spezza la sua volontà tacendo”[11].

Questo antico Padre porta esempi tratti tutti dalla vita monastica. Ma essi si possono aggiornare e adattare facilmente alla vita di ognuno, chierici e laici. Incontri, se non un lebbroso come Francesco, un povero che sai ti chiederà qualcosa; il tuo uomo vecchio ti spinge a passare al lato opposto della strada, e tu invece ti fai violenza e gli vai incontro, magari regalandogli solo un saluto e un sorriso, se non puoi altro. Sei stato contraddetto in una tua idea; punto sul vivo, vorresti controbattere vivacemente, taci e aspetti: hai spezzato il tuo io. Credi di aver ricevuto un torto, un trattamento, o una destinazione non adeguati ai tuoi meriti: vorresti farlo notare a tutti, chiudendoti in un silenzio di tacito rimprovero. Dici no, rompi il silenzio, sorridi e riapri il dialogo. Hai rinnegato te stesso e salvato la carità. E così via.

Un traguardo difficile (chi vi parla è lontano dall’esservi giunto), ma la vicenda di Francesco, ci ha mostrato cosa può nascere da un rinnegamento di sé fatto in risposta alla grazia. Il premio è la gioia di poter dire con Paolo e con Francesco: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”. E sarà l’inizio della gioia e della pace, già su questa terra. Francesco, con la sua “perfetta letizia”, è l’esempio vivente  della “gioia che viene dal Vangelo”, l’Evangelii gaudium.

Da parte di Francesco e mia, Pace e bene a tutti!

*

NOTE

[1] Y.Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa,Milano Jaka Book, 1972, p. 194.

[2] Celano, Vita Prima, VII, 17 (FF 348).

[3] Cf. Celano, Vita Seconda, V, 9 (FF 592)

[4] Cf. Celano, Vita prima, III, 7 (FF, 331).

[5] Bihhmeyer – Tuckle, II, p. 239.

[6] Legenda dei tre compagni VIII (FF 1431 s.).

[7] FF, 358; 1436 s.; 1508.

[8]  Legenda perugina 114 (FF 1673).

[9]  Regola Bollata, cap. II.

[10] Sulle condizioni della vera riforma, vedi Congar, op. cit. pp.  177 ss.

[11] Doroteo di Gaza, Opere spirituali, I,20 (SCH 92,p.177)